Le lesioni renali si osservano con una certa frequenza in corso di infezione da Covid 19, senza tuttavia sapere se esse siano un effetto diretto del virus o invece esiti secondari di altri processi patogenetici. Questo studio, basato interamente sulla biologia umana, ha permesso di chiarire ed evidenziare come il virus esplichi un’azione lesiva diretta sul tessuto renale, determinando una fibrosi tubulo interstiziale rilevabile nei campioni renali autoptici.
Sono stati eseguiti esami su 62 campioni autoptici nei quali a livello del citoplasma dell’epitelio tubulare prossimale, sono stati trovati elementi proteici del nucleocapside del SARS-CoV-2. Paragonando il campione di soggetti con Covid con uno di controllo similare per età, sesso e comorbidità, si è rilevato un netto aumento della fibrosi renale nei pazienti Covid.
Al fine di studiare il meccanismo di azione del virus nei confronti del rene, senza l’interferenza degli effetti sistemici e senza l’influenza dei trattamenti effettuati in corso di patologia, si è provveduto a infettare degli organoidi renali ottenuti a partire da cellule staminali umane pluripotenti indotte, con il SARS-Cov-2. Le cellule dell’organoide hanno mostrato l’espressione di due recettori fondamentali per la penetrazione del virus, ACE2 e TMPRSS2. Mediante il sequenziamento dell’RNA cellulare sono state riscontrate lesioni e differenziazione delle cellule infette con attivazione delle vie di segnalazione pro-fibrotica. Inoltre si è rilevata un’aumentata produzione di collagene all’interno dell’organoide. L’utilizzo di un inibitore delle proteasi migliorava la situazione. In particolar modo è stato appurato che i podociti e le cellule epiteliali tubulari sono responsabili dell’attivazione dei fibroblasti interstiziali, che da una prima forma di lesione di tipo acuto, pongono le basi per la successiva cronicizzazione della patologia renale. I risultati hanno mostrato chiaramente l’espressione di geni che inducono la produzione di fattori che innescano il processo fibrotico.
Si è dunque provveduto a testare possibili sostanze con azione inibitoria per impedire lo sviluppo dei danni renali. Il test ha riguardato un inibitore della principale proteasi del SARS CoV-2, che si è dimostrato utile nel ridurre la replicazione virale dentro le cellule (ricordiamo che la proteasi ha un ruolo chiave nel meccanismo di replicazione, in quanto è responsabile dei tagli della poliproteina a costituire le singole unità proteiche più piccole coinvolte nell’assemblaggio della particella virale). Gli studi hanno altresì permesso di evidenziare che il rischio di sviluppare insufficienza renale cronica nei pazienti affetti da Covid-19, soprattutto se in forme severe, è molto maggiore rispetto a coloro che hanno forme di distress respiratorio che necessita di terapia intensiva ma che trae origine da forme influenzali o altra causa.
Questo modello innovativo ha consentito di dimostrare che l’attivazione dei processi fibrotici a livello renale, in corso di Covid-19, non è una conseguenza della risposta del sistema immunitario, e neppure di risposte sistemiche come la diminuita perfusione renale che segue il distress respiratorio acuto, ma un danno diretto del virus.
Il sistema necessita di miglioramenti ed ha limiti intrinseci, ma è un valido punto di partenza per futuri studi ancora più accurati e rispondenti alla dinamica fisio-patologica in vivo.
Jansen et al., SARS-CoV-2 infects the human kidney and drives fibrosis in kidney organoids. Cell Stem Cell 29, 217–231. February 3, 2022 . https://doi.org/10.1016/j.stem.2021.12.010